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La Valle del Giordano e il land-grabbing

Il land-grabbing (“accaparramento di terra”) da parte di Israele nei territori palestinesi si è sviluppato in quasi un secolo di occupazione, in moltissime modalità. In realtà, è la costruzione di insediamenti illegali e di servizi collegati che attribuisce maggiore concretezza, permanenza, e insieme, impunità. 

Il territorio più occupato

Da quanto rilevato di recente dalla Commissione Europea, la costruzione degli insediamenti israeliani è aumentata significativamente, con 14.794 nuove unità nei primi mesi del 2020, principalmente in Cisgiordania. È proprio la Cisgiordania, anche per la sua estensione, ad essere il territorio palestinese letteralmente più occupato, più fratturato e più profondamente sfigurato e stravolto. Le conseguenze prodotte sono diverse in base alla zona e al contesto; ma si rivelano sempre ugualmente devastanti sia per il territorio che per le comunità autoctone.

La Valle del Giordano è lo specchio più limpido dell’accaparramento di terra israeliano in Cisgiordania e, soprattutto, della varietà, profondità e pericolosità delle sue conseguenze. Non solo economiche, ma anche sociali e culturali. 

La Valle del Giordano, o Jordan Valley, è una striscia di terra che si estende per oltre 2.400 km2 dal Mar Morto a sud fino a Bisan a nord, lungo il confine con la Giordania. Rappresenta quasi il 30% del territorio totale della Cisgiordania ed è casa per 60.000 palestinesi, per lo più contadini e pastori. 

L’Area C

L’87% della Valle del Giordano si trova all’interno dell’Area C, sotto il pieno controllo israeliano, come stabilito dagli Accordi di Oslo del 1993. E anzi costituisce la metà dell’intera l’Area C, a sottolineare l’importanza di questa vasta regione per lo stato occupante. È questa, infatti, l’area più fertile e ricca di risorse della Cisgiordania, per il suo clima caldo, le abbondanti risorse idriche e quasi un centinaio di riserve naturali e siti storici e culturali. Per questo motivo i governi israeliani, attraverso vantaggi e incentivi finanziari, hanno sempre incoraggiato i cittadini israeliani a migrare qui, e a occupare illegalmente porzioni di terra sempre più consistenti. Oggi nella Valle del Giordano si contano circa 11.000 coloni, 30 insediamenti e 9 avamposti. 

Nonostante la stragrande maggioranza della popolazione sia tutt’oggi ancora palestinese, questa è confinata nell’ 8% della Valle del Giordano. E intanto Israele controlla e amministra il restante 92% della regione. L’intero sistema di infrastrutture e di servizi è volto a servire gli interessi, i bisogni e il benessere dei coloni. Ciò altera non solo l’aspetto della Valle del Giordano, ma anche il suo sviluppo economico, i suoi legami sociali e, più in generale, la sua geografia umana.

Il land-grabbing e il paesaggio

La prima e principale traccia del land-grabbing è data dal paesaggio. Non solo dagli insediamenti fortificati e dalle case in lamiera distrutte, ma soprattutto dall’aridità di ampie zone dove sorgono piccoli agglomerati di tende con qualche cisterna e i recinti per il pascolo. Queste zone sono intervallate dai terreni particolarmente rigogliosi e verdeggianti delle aziende agricole israeliane, prima fra tutte quella di Mehadrin, dalle grandi piscine negli insediamenti come a Ma’ale Adumim, e dalle ricche industrie cosmetiche sul Mar Morto, quella di Ahava per esempio. È il frutto di anni di colonizzazione e land-grabbing, nonostante il diritto internazionale proibisca la creazione di insediamenti e lo sfruttamento delle risorse naturali nel territorio occupato.

A queste discriminazioni “geografiche” e alla luce del sole si sovrappone una fitta trama meno visibile, fatta di restrizioni amministrative e politiche che soffocano la vita e le libertà dei palestinesi. 

In violazione dei principi fondamentali del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, ai palestinesi viene impedito di sviluppare le proprie comunità in molteplici modi. Le case vengono sistematicamente distrutte; l’accesso all’acqua e alle fonti idriche naturali è perennemente vietato e la libertà di movimento è severamente limitata da posti di blocco, cancelli, trincee e persino cumuli di terra battuta strategicamente posti. Basti pensare che circa il 46% della Valle del Giordano è dichiarato “Firing Zone”, ossia zona militare chiusa, da cui i palestinesi sono stati cacciati o sono ancora in costante pericolo di esproprio. 

Le tribù beduine rischiano di scomparire

A Gerusalemme Est l’annessione è oggetto di proteste settimanali, come nei quartieri di Sheikh Jarrah e Silwan. Ma nella Valle del Giordano queste politiche illegali sono più silenziose, meno monitorate anche dalle organizzazioni internazionali. Per questo risultano anche più pericolose per le comunità palestinesi isolate e rurali della Jordan Valley.

Questa fertile e preziosa regione è infatti abitata da dozzine di piccole tribù beduine, come Jahalin, Al Rashaydeh e Zeyed, con una propria cultura e uno specifico stile di vita che rischia di anno in anno – o meglio, di restrizione in restrizione – di perdersi. Sotto amministrazione israeliana, ma ufficialmente non riconosciuti da Israele, i beduini non solo non ricevono alcun servizio – dall’elettricità alle fognature, dalle strade all’acqua potabile; ma non possono possedere la terra su cui vivono e lavorano, spesso categorizzata come “terra di stato” di Israele o zona militare chiusa. Si trovano perciò a vivere sotto la costante minaccia di sgomberi forzati e ordini di demolizione sulle loro case e sulle loro proprietà.

Il problema dell’acqua

Un altro ostacolo posto allo sviluppo delle comunità palestinesi e alla conservazione della loro cultura e dei loro nuclei sociali è la mancanza d’acqua; o meglio, l’accaparramento d’acqua. 

Le trivellazioni israeliane nella Valle del Giordano e il divieto di accesso per i palestinesi alle loro fonti d’acqua tradizionali hanno gravemente ridotto la fornitura d’acqua a disposizione dei palestinesi; questo sia per coltivare e abbeverare gli animali che, fondamentalmente, per vivere. Il consumo di acqua nelle comunità beduine è di 20 litri pro/capite al giorno. È l’equivalente alla quantità minima che l’ONU ha stabilito per la sopravvivenza in aree sconvolte da disastri umanitari.

Molti contadini della Jordan Valley sono stati costretti a diversificare i loro mezzi di sussistenza tradizionali; a passare a colture a minore intensità idrica e anche meno redditizie, come zucca, zucchine e cetrioli invece che i tradizionali agrumi; o addirittura ad abbandonare le colture stesse. Alcuni, come i residenti di Al-Auja, hanno dovuto trovare lavoro nelle fattorie degli insediamenti vicini, dotati di un accesso illimitato all’acqua.

La drastica diminuzione della popolazione palestinese

Quasi un secolo di questo accaparramento sistematico della terra e delle politiche apertamente discriminatorie che si porta con sé è la diminuzione drastica della popolazione palestinese nella Valle del Giordano. Basti pensare che nel 1967 la zona contava 320.000 palestinesi, mentre oggi sono meno di 60.000.

Le restrizioni imposte alla libertà di movimento, gli arresti arbitrari, le confische, le demolizioni; le incursioni nei villaggi, i limiti di accesso alle risorse idriche, alla terra, all’elettricità, all’educazione e all’assistenza sanitaria. Fa tutto parte di una politica volta a creare un clima coercitivo che costringa i palestinesi ad andarsene dalla Valle del Giordano. Al momento, senza una comunità internazionale attenta e attiva in difesa dei diritti dei palestinesi di questa regione, pare che Israele stia riuscendo nella sua annessione silenziosa.

Come scrisse il poeta e scrittore palestinese Mahmoud Darwish: “Ti hanno strappato la terra da sotto i piedi, così l’hai nascosta sotto la pelle”.

Michela Pugliese