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Movimenti femministi in Palestina

 

La Palestina, come molti territori in conflitto, è impegnata in una lotta continua per garantire i diritti civili del suo popolo. I diritti delle donne in Palestina sono una questione particolarmente delicata quanto urgente, con le donne che costituiscono uno dei gruppi più vulnerabili dello stato. 

La storia dei popoli oppressi, come quella del popolo palestinese, viene spesso celata. Nel caso delle donne palestinesi e dei loro movimenti femministi è doppiamente invisibile. Eppure, in Palestina, le donne lottano da sempre per i loro diritti e l’uguaglianza di genere. 

Unicità come sinonimo delle lotte femministe palestinesi

Per molti anni donne e uomini hanno lottato mano nella mano. Hanno progressivamente assunto un ruolo importante nella sensibilizzazione di tutti i palestinesi sulla questione della liberazione. Giorno dopo giorno le donne sono diventate sempre più attive nell’aprire le menti ai temi della libertà. Il loro ruolo si è sviluppato gradualmente, con la crescita della libertà dalle restrizioni sociali e religiose, e con la necessità della loro influenza nei movimenti politici e sociali. 

Questa lotta si è anche fatta carico di questioni nazionali, per aiutare gli uomini nel processo di liberazione. Così facendo ha spesso sacrificato questioni sociali legate alla vita quotidiana delle donne che hanno colpito duramente i tabù della società; in primo luogo il conflitto ideologico sul ruolo religioso delle donne.

Il contesto storico, insieme alle numerose sfide affrontate dalle donne palestinesi, fa emergere le difficoltà a cui hanno dovuto far fronte, rendendo così la loro storia e la loro battaglia uniche nel loro genere. Hanno lottato nei movimenti di liberazione nazionale contro il dominio britannico e poi contro il movimento sionista. Si sono conformate al femminismo del mondo arabo per distaccarsi da quello occidentale, che le imprigiona in stereotipi.

Anticolonialismo ed emancipazione sociale

Il femminismo palestinese ha contribuito alla realizzazione della visione che vede la liberazione nazionale dall’oppressione coloniale come il primo passo necessario verso l’emancipazione sociale, con il superamento della struttura patriarcale e il raggiungimento dell’uguaglianza di genere.

Hanno combattuto da sole per il paese e i propri diritti, per riforme sociali e politiche, forti della capacità di mettere in discussione sistemi di dominio diversi: il sistema coloniale, l’occupazione militare, l’imperialismo e il patriarcato. Ne emerge che: “la lotta femminile e femminista palestinese è stata una costante che si è sempre intrecciata a quella per la liberazione nazionale” e che continua a muoversi in questa direzione. 

Oggi, i movimenti femministi palestinesi sono in continua evoluzione e rinnovamento, esplorando nuove forme di inclusione e di definizione identitaria.

Le origini

L’esordio dei primi movimenti femministi palestinesi si ha tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Le donne iniziano a riunirsi in piccole organizzazioni, dando il via a un graduale processo di emancipazione per rivendicare l’indipendenza dal dominio coloniale occidentale. Nei primi anni del Novecento si formano le prime associazioni femminili organizzate, ma che hanno un’impronta prettamente borghese, urbana e cristiana. Le loro iniziative hanno carattere prevalentemente sociale e culturale: l’accesso paritario all’istruzione è una delle rivendicazioni più significative. 

Nel 1921 viene creata la prima organizzazione femminile strutturata, la Palestinian Arab Women’s Union. Fondata da donne istruite e ambiziose, è guidata da due attiviste centrali nella lotta anticoloniale: Emilia As-Sakakini e Zalikha Ash-Shinabi. Da questo momento in poi, il ruolo delle donne si afferma sempre di più all’interno della società palestinese. Nel 1929 iniziano le prime rivolte organizzate contro il regime coloniale. Nel 1930 più di 300 attiviste palestinesi si riuniscono per formare il primo Comitato delle Donne, che sosterrà le nascenti rivolte contro l’immigrazione ebraica. 

Anche nelle zone rurali si iniziano a mobilitare i primi gruppi di donne che reclamano la propria dignità contadina e i propri diritti. Il livello di partecipazione è sbalorditivo. Sono gli uomini, che ora iniziano a vedere l’emancipazione delle donne come necessaria per lo sviluppo dell’intera classe proletaria, ad addestrare e istruire le contadine. In concomitanza, nelle città crescono le organizzazioni sostenute da donne che forniscono assistenza sociale e sostengono la causa della resistenza. Benché nel periodo degli anni ’30 e ’40 emerga una diversificazione tra ambienti urbani e rurali, questa divisione verrà superata negli anni successivi. 

La Nabka

A ridefinire il ruolo della donna in ambito sia pubblico che privato è il periodo della Nakba (“la catastrofe”), che sconvolge completamente la vita del popolo palestinese. La condizione diasporica getta le basi per un maggiore coinvolgimento femminile nel mondo lavorativo, in aiuto alle migliaia di famiglie costrette a trovare riparo nei campi profughi. Durante la diaspora si gettano le basi per l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, e nel 1965 nasce il primo gruppo di impronta politica: L’Unione Generale delle Donne Palestinesi.

Momento di svolta sono gli anni Sessanta e Settanta, considerati gli anni d’oro del femminismo palestinese. Sono caratterizzati da una nuova generazione di attiviste che comprende la necessità di intrecciare piani d’azione. Tiene conto delle differenze di classe, e dalle città si muove verso gli ambienti rurali. Le donne vengono addestrate militarmente e incluse nell’OLP; tuttavia, le posizioni di dirigenza restano interamente in mano agli uomini. 

Nel 1978 iniziano a comprendere che non è esclusivamente attraverso la lotta nazionalista che otterranno la propria liberazione.È necessario costruire uno spazio d’azione autonomo. Una nuova generazione di giovani attiviste mette nero su bianco la necessità di affiancare alla lotta di liberazione nazionale quella femminista e di classe. L’8 marzo vengono creati i Comitati di lavoro delle Donne. Un decennio dopo, saranno organizzate centinaia di manifestazioni, mostrando il volto femminista della più grande sollevazione popolare che la storia locale ricordi. 

La prima Intifada e l’ascesa di Hamas

La più importante insurrezione della storia palestinese è nota come la Prima Intifada (1987-1993). Vi partecipano donne di ogni classe sociale, religione e provenienza, riconosciute come componente fondamentale dell’Intifada. Nascono in questi anni i Comitati femminili nel quadro dei Comitati Popolari dell’Intifada. Si impegnano in azioni dirette e manifestazioni, nell’organizzazione dell’economia domestica e della vita comunitaria, in un’ottica di auto-organizzazione conflittuale e boicottaggio del sistema di occupazione. 

Tuttavia, gli anni dell’Intifada sono anche quelli di un “ritorno alla tradizione”. L’ascesa di Hamas contrasta la dirigenza nazionalista dell’Intifada e, a partire dagli anni Novanta, inizia la prima campagna per imporre il velo alle donne. Un gesto che va inteso come un’imposizione di tipo politico, con il fine ultimo di strumentalizzare l’immagine della donna.

La strumentalizzazione dell’immagine della donna

Nel contesto palestinese l’osservanza dei principi riguardanti l’abbigliamento femminile non ha radici storiche o religiose. L’uso del velo è tipico delle zone rurali. Ha dunque una tradizione contadina, e negli anni ’30 diviene uno strumento di affermazione identitaria contro la dominazione coloniale. Quella di Hamas è una “tradizione inventata” che cerca di rendere il principio di sottomissione della donna come parte integrante della resistenza e di “nazionalizzare” il velo, che diventa così simbolo di appartenenza alla rivolta.

La donna assume così gli elementi simbolici centrali nello scontro per la guida dell’Intifada. Si tratta di un processo di politicizzazione del suo corpo, che vede tra le iconografie più utilizzate quella della donna vestita in abito tradizionale, che nutre un neonato avvolto nella bandiera palestinese. 

Il caso palestinese si fa ancora una volta complesso, come scrive Ruba Salih, antropologa di origine italo-palestinese. Non è solo la nazione ad assumere le sembianze di un corpo femminile, ma “prima ancora è la terra amata e perduta ad essere femminilizzata. La terra è stata spesso raffigurata come un corpo femminile che appartiene ad altri, e la sua perdita diventa violazione dell’onore, ma anche virilità maschile” per l’incapacità degli uomini di opporsi. Per questo motivo non mancano strumentalizzazioni politiche interne da parte della stessa retorica nazionalista. Nel caso palestinese, a seconda che la narrazione sia di stampo laico o islamista, l’idealizzazione del corpo della donna era e resta un terreno di scontro tipicamente maschile. 

“Women’s rights are human rights”

La prima Intifada termina nel 1993 con gli Accordi di Oslo, che normalizzano le relazioni con Israele mettendo fine alla rivolta popolare e concedendo i principi nazionali di autodeterminazione, liberazione e giustizia in cambio di un promesso consolidamento del potere politico ed economico. Sebbene le donne fossero state attive nelle organizzazioni non governative e nella società civile, la partecipazione femminile nel nuovo governo diviene debole ed emarginata, e le loro opportunità di lavoro enormemente limitate. 

Negli ultimi due decenni, la partecipazione delle donne palestinesi alla vita politica non è cambiata: esistono varie forme, dal lavoro di rappresentanza al lavoro di propaganda nelle organizzazioni femminili, dal radicalismo di base alla produzione culturale, passando per Internet e i principali social network. Estremamente rilevanti sono le iniziative realizzate da organizzazioni femminili e ONG, che si concentrano principalmente a contrastare la violenza di genere e a battersi per l’inclusione delle donne attraverso la rappresentanza politica, e che hanno permesso una serie di proposte di riforme giuridiche in linea con le convenzioni internazionali e con il paradigma teorico dei “diritti delle donne come diritti umani”. 

Questo tipo di attivismo richiede l’assunzione graduale di una coscienza sociale e pubblica. Ma questi problemi risultano ancora esclusi dal discorso politico ufficiale, nonostante gli sforzi per coordinare teoria e pratica nell’avanzamento del tema dei diritti delle donne. Allo stesso tempo, però, le donne sono rimaste in prima linea nella lotta per la resistenza. 

Il contributo delle donne

L’anticolonialismo ha segnato profondamente il percorso complessivo della lotta delle donne palestinesi, che non hanno mai rinunciato alla causa di genere. I progressi ottenuti, così come le sconfitte, dimostrano un’elevata dedizione e impegno per combattere la violenza dell’occupazione e per realizzare la liberazione della Palestina. 

L’ultimo ventennio ha anche visto una crescita esponenziale nell’ambito della produzione culturale dell’arte, della musica, della poesia e della letteratura, volto a sottolineare il contributo delle donne – che spesso è stato celato – alla formazione dell’identità nazionale: la metafora “Palestine as a woman and women as Palestine” si ritrova nelle opere di vari poeti contemporanei. 

Maria Rosa Milanese