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Chomsky: la prospettiva sulla Palestina

di Federica Sammali

La narrativa unilaterale a matrice israeliana indebolisce radicalmente la reintegrazione del popolo palestinese nei territori occupati di Gaza e Cisgiordania. Tuttavia, tra queste, spiccano alcune voci meno convenzionali. Proprio la voce di Noam Chomsky, celebre linguista, filosofo e attivista politico statunitense di origini ebree, non esita a puntare il dito contro le azioni del governo israeliano.

Noam Chomsky è stato e continua ad essere un fervente critico delle politiche adottate dallo Stato di Israele, da lui stesso definite “non conformi con gli obblighi sanciti dal diritto internazionale”. Le sue ricerche e idee costituiscono un ramo importante della narrazione che pervade gli incessanti sviluppi del conflitto israelo-palestinese.

L’intervista di Chomsky per Al Jazeera

A tal proposito, in una recente intervista per Al Jazeera, Chomsky ha nuovamente ribadito la sua prospettiva, già lungamente messa in questione e criticata all’interno della comunità accademica americana e internazionale:

Se parliamo di risultati a lungo termine non possiamo solo puntare su di una soluzione a uno Stato o a due Stati. Bisogna anche parlare di ciò che si sta realmente verificando, ossia la formazione progressiva di una “Grande Israele”.

Chomsky, dunque, ribadisce l’esistenza di un problema di fondo, che impedisce la stipulazione di un accordo a lungo termine, durevole, tra popolazione israeliana e palestinese. Tale problema scaturirebbe anche e soprattutto da una discordanza interna, data tra la lotta per l’affermazione di un’ideologia dominante di stampo etnico, la formazione, appunto, di un “Grande Israele” e la realtà degli attuali dati demografici che emerge dai territori occupati, dove la popolazione palestinese costituisce la maggioranza. Per Chomsky “è quasi inconcepibile che Israele accetti di “autodistruggersi” e diventare “una popolazione di minoranza ebraica in uno stato dominato dai palestinesi”. Si aggiunge poi la mancanza di sostegno da parte della comunità internazionale, che non fa che peggiorare la situazione.

Chomsky ammette, inoltre, di essere a conoscenza da lungo tempo della repressione del popolo palestinese da parte di Israele. Ha potuto vederla con i propri occhi e “in prima persona” durante il suo soggiorno ad HaZore’a nel 1953.

“Ho viaggiato…Sono andato nei villaggi palestinesi, ho sentito le lamentele degli abitanti del villaggio che non potevano attraversare la strada per parlare con le persone in un “kibbutz” amichevole a meno che andassero a combattere per ottenere l’autorizzazione ad attraversare la strada”. Tutto ciò, secondo Chomsky, sarebbe dovuto emergere molto tempo prima ed essere già ben noto ai media internazionali.

La denuncia al media occidentali

Durante un’intervista rilasciata dopo il ritorno dal soggiorno in Medio Oriente, Chomsky testimonia l’esistenza di “atti discriminatori all’interno della società”, specialmente nei confronti dei palestinesi. Nella stessa occasione, inoltre Chomsky affronta il problema della libertà di stampa. Denuncia la censura messa in atto dai media occidentali, dove:“Il New York Times – ad esempio – ha il principio di non riportare mai dichiarazioni concilianti da fonti arabe”.

Ma la più grande singolarità delle idee di Chomsky si deve, nella fattispecie, alla loro larga diffusione all’interno della comunità accademica ebraica ed israeliana. In tal senso, non solo Chomsky si fa portavoce di una visione più critica, che diverge dall’unilateralità nell’analisi della filosofia politica e contemporanea di Israele. Nel contempo, le sue riflessioni sono pervase da una lucida considerazione morale, un elemento centrale che costituisce il fulcro della tradizione ebraica tramandata in Occidente.