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Quando le violazioni di diritti civili e politici si scontrano: i media palestinesi

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‘I feel like the camera protects me, but it’s just an illusion’. 

Questa è la storia del Palestinese Emad Burnat, raccontata nel documentario ‘5 Broken Cameras’. Tramite la lente delle sue telecamere, Burnat testimonia la resistenza pacifica del villaggio di Bil’in, a 12 km da Ramallah, conosciuto oramai per le sue manifestazioni settimanali contro l’Occupazione e la Barriera di Separazione. ‘Telecamere’ che permettono a Burnat di raccontare lo sradicamento di alberi di ulivo, l’intensificarsi delle proteste e della violenza. ‘Telecamere’ che si susseguono nel tempo, in quanto violentemente rotte durante gli scontri con le forze militari ed i coloni Israeliani. 

‘5 Broken Cameras’ parla di diritti civili e politici rubati, di voci che vengono sempre più silenziate, di un uso della forza che va oltre le consentite ‘ragioni di sicurezza’. Queste violazioni sono le tipiche risposte riservate a qualsiasi resilienza, ed accompagnano i Palestinesi ovunque risiedano, che sia nei Territori Occupati, a Gaza o ad Israele. 

A riprova di ciò, secondo le stime di Freedom House la West Bank non è un paese libero. Con un punteggio pari a 25/100 i Palestinesi si trovano le loro libertà civili e politiche schiacciate da due forze contrarie, ma di simile intensità: l’Occupazione Israeliana e l’Autorità Palestinese. L’obiettivo comune: tappare le ali del dissenso. 

Si tratta di un progetto accurato che colpisce in primis i media. Se le notizie infatti non vengono diffuse o quantomeno vengono ‘filtrate’ a proprio piacimento, la possibilità di reazioni ed agitazioni popolari sarà decisamente minore. 

A tale scopo, risulta necessario mantenere i media altamente influenzabili, suscettibili a pressioni politiche e commerciali. Secondo un sondaggio condotto da MADA (Palestinian Center for Development and Media Freedom) l’83% dei giornalisti intervistati crede che i media palestinesi non siano indipendenti. In teoria, è inappropriato che determinati interessi esercitino influenze sui media e sulla loro capacità e dovere di watchdog. In pratica, in Palestina non è ancora presente un sistema indipendente per regolare il broadcasting. Sono infatti gli organi governativi a concedere le licenze televisive e radiofoniche. Inoltre, come riportato da uno studio dell’UNESCO, non c’è alcun tipo di controllo sulle allocazioni di queste licenze ed i criteri per ottenerle risultano essere molto ambigui. In poche parole, corruzione, mancata equità e mancata trasparenza, potrebbero essere dietro l’angolo. I media Palestinesi sembrano perciò non godere di quell’immunità dichiarata leggitima dall’agenda politica.

Questa intrusione è così invadente da estendersi anche ai singoli componenti delle organizzazioni editoriali, televisive, e radiofoniche: i giornalisti. Per prevenire la copertura mediatica, le forze militari Israeliane attuano attacchi mirati contro i giornalisti, che possono includere violenza fisica, arresti, azioni penali e la loro rimozione forzata dal campo. Se la situazione aveva già catturato la preoccupazione internazionale, i recenti scontri tra Israele e Gaza hanno fatto lievitare il numero di abusi. Il Sindacato dei Giornalisti Palestinesi ha documentato infatti 337 violazioni ad opera di Israele contro i giornalisti nei Territori Occupati solamente nel mese di Maggio: le cifre parlano di 31 persone ferite da spari, 32 soffocate dai lacrimogeni, ed altre colpite da granate stordenti. Allo stesso tempo, l’Autorità Palestinese arresta, abusa, tortura e imputa penalmente attivisti e giornalisti che osano criticare i due governi Palestinesi. 

I giornalisti Palestinesi sono quindi bloccati da entrambi i lati in un sistema di molestie che li porta ad autocensurarsi. Secondo le stime di MADA, costituiscono il 96% i giornalisti che limitano la propria libertà di espressione per non incorrere in reati ed arresti. Facendo ciò, le autorità Israeliane e Palestinesi non restringono solamente lo spazio di azione dei giornalisti, ma anche la loro capacità di stimolare la partecipazione politica di tutti i cittadini, soprattutto in un delicato contesto politico come quello attuale. 

L’Autorità Palestinese, infatti, non convoca le elezioni presidenziali dal 2005.  Mahmoud Abbas continua a svolgere il suo mandato presidenziale, scaduto nel 2009. L’organo legislativo non è funzionante, a causa delle divisioni di Fatah-Hamas e alla detenzione di molti legislatori da parte di Israele. In questo clima di incertezza politica, la decisione di Abbas di rinviare le elezioni programmate per il 22 Maggio, ha trasformato l’entusiasmo Palestinese in delusione e rabbia. Una scelta che non ha destato troppi stupori, considerando lo scarso interesse ad andare alle urne. Per ciò che concerne l’Autorità Palestinese, l’organizzazione Al-Haq ha riportato diverse violazioni contro i candidati di varie liste politiche nel periodo pre-elezioni. Inoltre, il giovane giornalista Ahmed Zayed è stato licenziato da Arab American University Radio dopo aver intervistato il candidato per le legislative Jaradat. Israele, d’altro canto, ha risposto alle domande di cooperazione finalizzate al successo delle elezioni con sistematici arresti di giornalisti Palestinesi. Per citarne uno, ad Aprile le forze militari Israeliane hanno arrestato il direttore di G-media network e corrispondente per Al-Jazeera Live Alaa Hassan Jamil Al-Rimawi, facendo irruzione nella sua casa a Ramallah.

Tutti questi sintomi rivelano la mancata volontà di perseguire un futuro politico democratico per la Palestina, e la presenza di ostacoli verso un’effettiva opinione pubblica. Con i giornalisti ed i media impossibilitati a divulgare informazioni vitali per una scelta politica informata, e la mancanza di leggi che prevedono un’equa copertura mediatica durante le elezioni, quali sono le chances di promuovere la partecipazione per un cambiamento politico?

Non si potrà mai avere un popolo libero di esprimersi ed una società democratica senza dei media liberi e indipendenti. I media hanno il diritto di raccontare la verità ed i Palestinesi di ascoltare le loro storie. Altrimenti, la sete di cambiamento per maggiori diritti civili e politici non potrà mai essere soddisfatta.

Laura Caramignoli