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La Moda che Fa Politica

Parlare di moda si sa, non è mai facile. Seppur il settore moda valga globalmente circa 17 trilioni di dollari e conti 17 milioni di dipendenti, molto spesso la settorializzazione del sapere lo relega ad uno stereotipo di opulenza e leggerezza. In realtà la moda, come tanti altri ambiti, può essere lo strumento necessario per raccontare, denunciare e veicolare messaggi sociali e politici.

In Medio Oriente, ed in particolare in Palestina, molti sono gli stilisti, per la maggior parte emigrati nella vicina Giordania per poter lavorare, che utilizzano la moda come un mezzo per uscire dall’immobilità a cui sono costretti, denunciare le violazioni subite e dare nuova forma a tradizioni artigiane millenarie. 

Uno tra i ricami più importanti in Palestina è  il thobe . La scelta dei colori e dei disegni indica l’origine regionale della donna o il suo stato civile ed economico. Secondo il quotidiano egiziano Egypt Independent, il thobe è diventato un nuovo “simbolo politico”, anche più della famosa kefiah di Yasser Arafat, diventata bandiera nelle manifestazioni di mezzo mondo. La visibilità internazionale del thobe, proclamato dall’Unesco patrimonio intangibile dell’umanita, è nata grazie a Rashida Tlaib, la prima donna statunitense di origini palestinesi eletta al congresso di Washington. Molti sono gli stilisti che riutilizzano questo tipo di ricamo per narrare le loro origini. 

Nel 2015 lo stilista pale Jamal Taslaq mostrò in anteprima mondiale presso la sede delle Nazioni Unite a New York, in occasione della giornata di solidarietà con il popolo palestinese promosso dall’ONU, i suoi capi che esaltavano la tradizione palestinese, la cultura e bellezza: “che questo momento sia uno stimolo e un esempio per tutto il popolo palestinese, inseguite i vostri sogni”, ha detto alla fine della sua sfilata. Nativo di Nablus ed approdato in Italia, nei suoi capi c’è un riferimento costante all’artigianato palestinese e alla liberazione del suo popolo. Oggi Jamal Taslaq è considerato uno tra gli stilisti più importanti del mondo. 

Il riutilizzo di antichi ricami e antiche tradizioni è presente anche nella vision del collettivo palestinese tRASHY. I quattro giovani utilizzano la moda per combattere gli stereotipi sul loro popolo e creare una narrazione positiva della cultura palestinese. Nel loro stile fluido e ricco di riferimenti alla cultura pop, non manca il pensiero all’occupazione israeliana. Simbolico l’evento della sfilata di Berlino in cui il collettivo decise di far sfilare le modelle con capi su cui era ben in vista la scritta “Miss apartheid” per creare un sillogismo tra la storia tedesca e quella palestinese.

Il settore moda non è  fatto solo di brand e stilisti, ma anche di modelle, influencer e blogger. Se sono ben note a tutti le posizioni a difesa della Palestina portate aventi dalla  famiglia Hadid , meno nota è stata la reazione del modello Qaher Harhash, palestinese nato e cresciuto a Gerusalemme, difronte ad un episodio di razzismo in cui la responsabile del settore moda femminile di Zara Vanessa Perilman lo ha attaccato per le sue origini e per i suoi post in difesa della Palestina.

Altro caso mediatico molto interessante è stato portato all’attenzione del mondo dei social media dal blog Diet Prada. Il blogger infatti ha accusato di appropriazione culturale il brand di moda Luis Vuitton per una sua linea di sciarpe molto simili alla kefiah palestinese , da sempre simbolo di lotta e resistenza. Di cattivo gusto è stata anche la scelta di uscire con la collezione poco dopo i bombardamenti di Gaza dello scorso anno.

A far discutere sui messaggi che un capo veicola è stato anche il Concorso di Miss Universo svoltosi il 13 dicembre 2021 nella città costiera israeliana di Eilat. Elias Khoury, uno dei più importanti scrittori e intellettuali del mondo arabo, si è concentrato sull’episodio nel suo editoriale su Al Quds dove ha accusato alcune delle Miss che gareggiavano di appropriazione culturale ai danni dei palestinesi, quando per il mero scopo di un messaggio promozionale hanno condiviso sui social immagini che le ritraevano nel deserto, con abiti in thobe mentre cucinavano involtini di foglie di vite in mezzo ai beduini accompagnate dall’hashtag #visitIsrael.

Non è la prima volta che la cultura e l’artigianato palestinese vengono utilizzati in modo strumentale per promuovere il  “buon nome di Israele”, ne che la sua cultura venga confusa con quella israeliana. Quello che è certo è che la moda può raccontare dei messaggi, e gli stilisti palestinesi lo fanno creando capi che uniscano tradizione, bellezza e sofferenza. 

Quella di poter realizzarsi soltanto lasciando la loro casa. 

Carolina Lambiase