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Il bene che si crea: volontariato di Mirta e Aldo

Wise voice story è una rubrica che ha come obiettivo quello di raccontare la Palestina attraverso le storie di esperti, organizzazioni e attivisti che vivono in loco. Diamo voce a chi la Palestina la vive e la affronta quotidianamente. In Palestina ci sono tante organizzazioni che offrono la possibilità, a chi interessato, di passare un periodo a stretto contatto con il conflitto, la popolazione palestinese e la vita sospesa a metà tra Israele e Palestina. Molte sono le persone che scelgono di toccare con mano, per un periodo più o meno breve, questa realtà. Capire il loro punto di vista e come questo cambia è estremamente interessante per Labiba.

La Wise Voice Story di oggi ci porta a conoscere proprio due di queste voci giovani e curiose che hanno deciso di passare del tempo in quei luoghi sognanti e difficili.

Per chi non lo sapesse, di cosa si occupa Operazione Colomba? Raccontateci un po’ della sua storia e delle sue origini

Aldo e Mirta: Operazione nasce nel 1992 grazie al coraggio di alcuni obiettori di coscienza della Comunità Papa Giovanni XXIII (associazione ecclesiastica riconosciuta anche come ONG dal ministero degli affari esteri) che, come semplici civili, si sono recati nei territori dell’ex Jugoslavia in cui allora imperversava odio, discriminazione e guerra. La proposta alternativa, ma allo stesso tempo semplice, era quella di restare accanto alle vittime promuovendo spazi di dialogo tra le parti in causa e condividendo insieme a loro le condizioni disumane che il conflitto inevitabilmente portava.

Due le volontà: farsi vicini e prossimi a chi vive tra sofferenze e violazioni dei diritti e agire mettendo in campo il proprio impegno personale.

Dopo l’esperienza in ex Jugoslavia, Operazione Colomba si è impegnata in numerosi altri campi e zone conflittuali del mondo. Dalla Cecenia al Kosovo, dalla Repubblica del Congo all’Uganda sino a toccare territori come l’Indonesia. Non solo territori lontani ma anche vicini come Castel Volturno a fianco dei migranti in un territorio permeato di violenza e con fortissime infiltrazioni camorristiche. Recentemente si è chiusa la presenza in Albania dove i volontari operavano contro la piaga delle vendette di sangue.

Ad oggi i luoghi di conflitto in cui Operazione Colomba è presente in maniera attiva sono Libano, Colombia, Palestina e Grecia – Lesbo. Qui c’è una presenza mista di volontari di Operazione Colomba e di Comunità Papa Giovanni XXIII.

Cosa vi ha spinto a partecipare ad un progetto di Operazione Colomba?

Aldo: In poche parole, il desiderio e la necessità di avere un’esperienza diretta con una pagina di storia nascosta o molto spesso raccontata male. La prima volta che venni a conoscenza della questione Israelo-palestinese è stato all’università durante un modulo di storia.  Durante gli anni del liceo non si approfondiscono molto le conseguenze della diaspora degli ebrei durante e dopo la Seconda guerra mondiale. Nessun docente spiega di Theodor Herzl o della dichiarazione di Balfour. Quando ne sentii parlare per la prima volta compresi inevitabilmente che in Palestina era in corso una sistematica violazione dei diritti umani.

L’unica cosa giusta da fare sarebbe stato recarmi di persona in quel territorio così martoriato. Rimaneva però da capire ancora come e quando. Tramite un passaparola con un amico dell’università, scoprii la realtà di Operazione Colomba. Così iniziai a dare un’occhiata al loro sito e a seguire le loro iniziative che erano promosse nella città in cui vivevo: Torino. Dopo la laurea e qualche anno di lavoro da stagista sottopagato, sentivo di rischiare che il mio personale fuoco per i diritti umani si spegnesse. Temevo, insomma, che avrei potuto cedere all’indifferenza. Così decisi di lasciare tutto e partire per il progetto nei territori occupati della Palestina e più precisamente nelle South Hebron Hills dove Operazione Colomba mantiene una presenza attiva da più di quindici anni.

Mirta: La mia storia con la Palestina inizia nel 2015, anno in cui ho incontrato e ospitato in casa tre fratelli palestinesi. Questi, con la loro gioia e semplicità, mi raccontarono le loro storie: le violenze, le violazioni dei diritti umani, le intimidazioni e le difficoltà di una vita in un regime di occupazione militare permanente.
Volevo fare qualcosa per loro, per aiutarli. L’unica loro richiesta è stata la mia testimonianza. Mi hanno chiesto di raccontare il più possibile le loro storie, le vicende del popolo palestinese, di rompere il silenzio. Sotto loro richiesta ho poi scelto e sviluppato i miei studi in Storia e poi in Diritti Umani.
Ma è arrivato il momento in cui avevo bisogno di vedere con i miei occhi e toccare con le mie mani ciò che avevo studiato. Mi sono allora imbattuta in Operazione Colomba. Era tutto ciò che stavo cercando: un corpo nonviolento, per la pace, per la condivisione con le vittime di conflitto che poneva al centro la dimensione del gruppo, la conoscenza diretta della realtà, la neutralità (intesa non come non prendere posizione di fronte alla violenza ma come equivicinanza con tutte le parti in causa), la costante necessità di leggere l’evolversi della realtà e su essa modificare l’azione. E allora sono partita!

Quali erano le principali attività ed azioni? Come si svolgeva la vostra giornata lavorativa?

Aldo e Mirta: La giornata dei volontari ruota decisamente intorno a quelli che sono gli obiettivi principali del corpo civile di pace di Operazione Colomba. Innanzitutto, monitorare ogni forma di violazione dei diritti umani che avviene ed è subita nei Territori Occupati di Palestina.

L’attività principale è sicuramente lo school patrol. I bambini dei villaggi limitrofi, per raggiungere la scuola presente nel villaggio di At-Tuwani, devono percorrere un tragitto molto pericoloso a causa dei ripetuti attacchi dei coloni israeliani della colonia di Ma’On e dell’avamposto illegale di Havat Ma’On.

Nel 2004, in seguito ad un violento attacco in cui sia i bambini che alcuni internazionali loro accompagnatori vennero feriti e grazie all’attenzione dell’opinione pubblica e alla dilagante indignazione, lo Stato israeliano ha deciso di affiancare una scorta militare ai bambini palestinesi verso la scuola. Il cortocircuito che si crea è particolarmente evidente: coloro che dovrebbero difendere i bambini sono israeliani quanto coloro che attaccano i bambini. Non solo gli immancabili ritardi, ma anche i livelli di convivenza che molto spesso sussistono tra coloni e soldati non permettono la totale sicurezza dei bambini palestinesi scortati.

Un’altra attività che contraddistingue il corpo civile di pace di Operazione Colomba è l’accompagnamento dei pastori e contadini palestinesi sulle loro terre per le loro attività lavorative quotidiane. I palestinesi vengono spesso attaccati, fisicamente e verbalmente, dai coloni e sopraffatti dai soldati israeliani che usano il loro potere per minacciare e poi allontanare i palestinesi dalle loro terre. A volte l’intimidazione si conclude con l’arresto immotivato e il rilascio dopo pagamento di cauzione.

La presenza di internazionali sul campo, come i volontari di Operazione Colomba, sebbene non impedisca che i soprusi avvengano, è utile perché funge da deterrente all’uso della violenza. Inoltre, documentando ogni violenza e violazione dei diritti umani, ha la possibilità di sensibilizzare l’opinione pubblica e la comunità internazionale tramite attività di advocacy, come la divulgazione di report ufficiali e notizie tramite i media. E poi c’è il supporto alla resistenza nonviolenta del popolo palestinese con la condivisione della vita quotidiana delle persone che abitano nei villaggi palestinesi e la promozione delle attività dei comitati popolari palestinesi.

Per approfondire, vi lascio il riferimento del documentario “So far so close” realizzato da Operazione Colomba qualche anno fa  https://www.youtube.com/watch?v=7aBh9zMtX6A

Ci potete raccontare un momento molto intenso vissuto durante i vostri progetti?

Aldo: Ci sono stati molti momenti intensi. Spesso questi momenti sono fatti di immagini, sguardi o semplicemente chiacchierate avvenute durante le nostre visite alle famiglie dei villaggi. L’accoglienza da parte dei palestinesi è sempre totale. Un giorno ci siamo fatti ospitare da una famiglia del villaggio di Tuba, a cui il giorno prima le forze di occupazione israeliane avevano distrutto la casa e il recinto delle pecore. Non rimaneva loro più nulla.

Quando ci videro arrivare ci accolsero all’interno di una grotta e ci spiegarono la terribile distruzione che erano stati costretti a vivere. Ci fecero accomodare su dei tappeti morbidi, disposti vicino ad un fuoco e ci offrirono da mangiare tutto quello che avevano. Una bottiglia di olio (l’ultima rimasta loro), un pezzo di tabun, il pane tipico palestinese, zatar, leban e té in abbondanza. Il ricco banchetto improvvisato stonava di gran lunga con la povertà del posto. La donna più anziana della famiglia ci invitò persino a dormire la notte e ci disse che potevamo restare tutto il tempo che avremmo voluto. Non era rimasto loro più nulla ma ci avevano offerto tutto.

Questo momento fu per me molto intenso anche a causa del disagio che avevo provato nell’accettare cibo e ospitalità. Ero arrivato da poco in Palestina e, abituato alla freddezza e ai ritmi frenetici di una grande città come Torino, non mi aspettavo potesse esistere una tale ospitalità e forza. Chiacchierammo ancora delle differenze con cui noi, in Italia, preparavamo il tè o del caffè palestinese ed italiano. Ridevamo. Mi sembrò incredibile ridere in quel momento, quasi irrispettoso, ma lo sguardo e il sorriso dell’anziana che mi sedeva di fronte era contagioso ed ampio. Era da tempo che non ne vedevo uno così sincero.

Ricordo quegli istanti ancora adesso a distanza di ben due anni in ogni minimo dettaglio.

Mirta: Difficile trovare un momento non intenso durante la vita in progetto! Di primo acchito, non visualizzo episodi di violenza o gli attacchi particolarmente pericolosi che ho sperimentato. Penso a momenti di condivisione particolarmente profonda, spesso in reazione ad episodi drammatici. Penso a quella volta a Burin, vicino a Nablus, durante la raccolta delle olive, in seguito ad un brutale attacco di coloni contro i contadini palestinesi e gli internazionali loro accompagnatori. Sembrava di essere in prima linea durante una guerra, con i coloni che avevano appiccato e sospinto il fuoco verso di noi, mentre dall’alto delle colline sparavano a vista e con le slingshots tiravano pietre contro di noi. Ricordo le urla, le persone ferite, la pietra che ha centrato in pieno la telecamera con cui stavo filmando, le corse dietro i cespugli per ripararsi, le mani di chi mi buttava a terra per proteggermi.

Eppure, se ripenso a Burin, vedo tutti noi, palestinesi, internazionali e israeliani attivisti, seduti accanto a chi era stato arrestato dai palestinesi (nessun colono ha subito ripercussioni di alcun genere) che cantiamo tutti in coro, sempre più forte “Bella ciao”, canzone molto cara ai palestinesi tutti.

Ricordo gli occhi di uomo palestinese che brillano mentre spezza una focaccia allo za’atar.  Ricordo una lunga camminata sotto il sole splendente nella Firing Zone con giovani palestinesi che coglievano dei fiori da mangiare e da farmi assaggiare. La mano di una bambina stretta alla mia, dopo attimi di paura.
Ricordo il bene che ho vissuto. Come insegnano i palestinesi che resistono da decenni ad una illegale occupazione militare senza l’uso della violenza e delle armi, il bene ha davvero radici più profonde di ogni altra cosa.

L’impressione di molte e di molti, quando si trovano nei territori occupati, è il completo abbandono da parte della comunità internazionale. Cosa ne pensate voi?

Aldo: Quando si fa esperienza di qualsiasi violazione dei diritti umani credo che una delle prime domande sia proprio: perché la comunità internazionale non reagisce? Poi vivi il campo e ti rendi conto che la risposta a questa domanda non ci sarà mai. Gli incravattati sono troppo in alto per comprendere le reali necessità del popolo, palestinese in questo caso. Tu sei troppo in basso per poter contare qualcosa sui processi decisionali di istituzioni come ONU, comunità europea, ecc…

Noi “Internazionali”, siamo spesso portati a pensare che siano politici, amministratori o presidenti i principali fautori del cambiamento. La mia esperienza in Palestina mi ha insegnato il contrario.

Nelle colline a sud di Hebron il cambiamento parte dal basso, con processi decisionali che mettono al centro le esigenze del popolo palestinese, costretto a vivere a fianco delle colonie illegali israeliane. Quando il comitato di resistenza non violenta si riunisce, per decidere come reagire in maniera pacifica alla violenza dell’occupazione israeliana, non discutono dall’alto di palazzoni di vetro o lussuosi appartamenti in centro, bensì in grotte o capannoni, spesso senza acqua corrente, gas o luce.

Penso quindi che il vero fattore del cambiamento siano il pastore con cui pascolavamo, la famiglia che ci accoglieva, gli shebab e le benet del comitato con cui condividevamo pranzi e cene, momenti di allegria e tristezza, ma anche di rabbia e di serenità.

Si sente un abbandono solo quando prima si poteva contare su una presenza. Pensare che qualcosa debba arrivare dall’alto, dalla comunità internazionale, sono convinto sia un retaggio tipico di noi occidentali benestanti. In conclusione, stento a credere che palestinesi si possano sentire abbandonati dalla comunità internazionale, dato che gli stessi stati che la compongono hanno permesso e continuano a permettere ad Israele di invadere impunita i territori della Cisgiordania.

Mirta: “Per portare avanti questa scelta non possiamo essere lasciati soli. Abbiamo bisogno degli internazionali”. Queste sono le parole del leader del comitato popolare delle colline a sud di Hebron. Indubbia è la necessità della comunità internazionale per la risoluzione della questione palestinese. Finché gli organismi internazionali e le statualità tutte non condanneranno le azioni israeliane, tacciandole di illegalità e disumanità, Israele avrà sempre un appiglio a cui aggrapparsi per giustificare i suoi crimini contro l’umanità, la pulizia etnica che prosegue da prima del 1948 e l’instaurazione di un regime di apartheid. Quando la comunità internazionale non scuserà né supporterà più le politiche di segregazione e discriminazione di Israele, quest’ultimo perderà di legittimità.

Spesso, però, pensiamo al termine “comunità internazionale” associandolo solamente al sistema di organismi politici, economici e legali internazionali. In realtà, è utile non scordare che nella comunità internazionale rientra anche la società civile di cui ognuno è parte. E ognuno di noi ha, quindi, non solo una responsabilità, ma soprattutto la possibilità di cambiare lo scenario! Infatti, quando mi trovavo in progetto, capitava sì che percepissi la lontananza e inattività dei “piani alti”. Tuttavia, sentivo anche la vicinanza sempre più attiva di parte della società civile, grazie alle numerose delegazioni in visita, agli internazionali presenti alla raccolta delle olive, alle associazioni sul campo e alle iniziative in Italia a supporto.  Nel nostro piccolo, siamo tutti “casse di risonanza” e, uniti, possiamo arrivare ad influenzare e destabilizzare i piani alti.

Palestina è sinonimo di resistenza e resilienza e i palestinesi sono un popolo che senz’altro stupisce chi li conosce. Come è stato il vostro periodo in Palestina e cosa ne pensate di questo popolo?

Aldo: I palestinesi sono sicuramente un popolo diventato simbolo di resistenza e resilienza. Terrei, però, a precisare che non dobbiamo dare per scontato l’accostamento di questo termine al popolo palestinese. I palestinesi che ho incontrato nelle aree C delle south Hebron Hills scelgono ogni giorno di non abbandonare la loro terra, di pascolare e coltivare i propri appezzamenti di terra nonostante i continui attacchi dei coloni e arresti dei soldati. Optano costantemente e scientemente per una risposta non violenta alle aggressioni che subiscono.

Non è scontato infatti che i giovani continuino a restare e lottare nel luogo in cui sono nati. La lotta per il grande concetto di autodeterminazione passa attraverso il singolo pastore che porta il suo gregge, l’agricoltore che pianta i suoi ulivi e i bambini che affrontano ogni giorno la paura di subire aggressioni per andare a scuola. Oltre che sinonimo di resistenza, i palestinesi sono simbolo di tenacia. Ovviamente questo non vale solo per la questione palestinese si possono citare altri esempi di popolo costretti a lottare per la propria indipendenza e autodeterminazione. Penso al popolo del saharawi in Marocco o al Kurdistan per citare due macro-esempi.

Ciò che dovevo comprendere sul mio periodo in Palestina e, più precisamente, sul mio ruolo di internazionale l’ho imparato a soli quattro giorni dal mio atterraggio a Tel Aviv. Un giorno il leader del comitato di resistenza mi disse che il mio ruolo in Palestina era solo quello di osservatore, perché la mia vera partita si sarebbe giocata al mio ritorno in Italia. Nel mio mondo mi sarei dovuto far carico in qualche modo di ciò che avevo visto per raccontarlo e divulgarlo a tutti nel miglior modo possibile. Ho compreso che attivisti internazionali, israeliani e palestinesi, giocano un ruolo importante contro l’occupazione, ognuno nella propria realtà, ognuno con i propri mezzi e le proprie forze.

Parafrasando la frase di uno degli shebab del comitato: non importa se quello che farai per supportare la causa palestinese ti sembra insignificante. In realtà è molto importante tu lo faccia. Questa è la vera solidarietà.

Mirta: Potrei quasi senza dubbio dire che il mio periodo in Palestina è stato tra i momenti più unici che io abbia mai vissuto. I palestinesi sono un popolo di gran cuore.  Non si risparmiano in niente con gli ospiti: ti donano tutto quello che hanno e chi ha poco ti offre più di quanto può permettersi. Ti aprono le loro case e davvero l’ospite è sacro, è parte della famiglia. Diventi figlia che dorme con le ragazze di casa, diventi compagna di giochi dei bambini, membro attivo della famiglia che in ottobre raccoglie le olive, condividendo la fatica, la terra e i mille tè super zuccherati.  “Beiti beitak“: la mia casa è la tua casa. Ed è veramente così.

La seconda cosa è appunto la resistenza dei palestinesi. È un popolo fortissimo, che da decenni sopravvive e non si abbatte sotto l’onda violenta dell’occupazione israeliana. La cosa incredibile è che ho sempre incontrato, al nord e al sud, persone scavate dal dolore, ma mai irose, persone costrette a subire soprusi inammissibili, ma mai spezzate e vinte. Uomini, donne e anche bambini che continuano ad andare avanti, forti nei loro ideali, certi dei loro diritti, certi della necessità e della giustizia della loro esistenza. Straordinarie la loro creatività e originalità d’azione, straordinaria – e forse inevitabile – la capacità di reinventarsi per portare avanti la resistenza.  Ed incredibile, straordinaria, invidiabile è soprattutto la dignità di queste persone, che si alzano in piedi per rivendicare i loro diritti, che alzano la loro voce per far sentire che ci sono, che esistono, che sono ancora in piena resistenza, che sono vive, nonostante tutto. 

E direi che il popolo palestinese è un gran maestro di vita. Non sono supereroi in grado di far fronte a tutto e sopravvivere a tutto: sono ancora più speciali. Sono persone ordinarie, comuni, che decidono di affrontare la loro ingiustamente travagliata vita quotidiana con tutta la forza, la serenità e la pace che hanno in corpo. Qualcosa, per noi occidentali, forse incomprensibile.  “Inshallah” è la parola chiave che risuona ovunque in Palestina, forse la più vera per gente che vive nell’incertezza del domani: “Se Allah vuole”. Tutto è affidato in Palestina, ad Allah, alla vita. Ogni momento.

Proprio per questo, perché nessun palestinese sa quanto ancora potrà pascolare i suoi animali prima che vengano i coloni o l’esercito a cacciarlo dalle sue terre; perché nessun palestinese sa quando la sua casa verrà demolita e la sua famiglia resa profuga; nessuna donna palestinese sa se quel giorno il marito e i figli usciti di casa rientreranno incolumi; nessun bambino palestinese sa se potrà dormire tranquillo quella notte senza sentire i cani ululare e i coloni israeliani attaccare. Allora, proprio per questo, ogni momento è sacro. E deve essere vissuto al massimo, nella serenità e nella pace, nella condivisione e nella gratitudine.