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Il Land Grabbing in Palestina: Intrinsecamente Politico

La Terra. L’elemento imprescindibile dell’occupazione israeliana in Palestina.
Che sia lo spazio fisico su cui costruirci uno Stato, che sia un elemento con cui ottenere risorse, che sia sinonimo di appartenenza nazionale o religiosa, la Terra ha assunto un ruolo fondamentale nella storia delle relazioni israelo-palestinesi.

In questo conflitto, tutto ruota intorno ad essa. La politica israeliana di incessante land grabbing. La resistenza palestinese a tale furto.
Il land grabbing è stato infatti un punto fisso nella politiche portate avanti da Israele nei confronti della Palestina. Acquisendo dunams dopo dunams, Israele è oggi in grado di esercitare il proprio controllo su più del 60% dell’occupata West Bank. Avanzare, svuotare, per poi rimpiazzare. Questo modus operandi ha costituito la strategia cardine, la cui intensità è oscillata nel tempo, ma che continua inesorabilmente. Fu così che un territorio con un tradizionale paesaggio modellato da centenari alberi di ulivo è stato gradualmente soppiantato dalle architetture degli insediamenti israeliani. Fu così che i Palestinesi si sono trovati sempre più circoscritti in Bantustan, piccole isole sovrappopolate e disconnesse tra loro.

Per fondare uno stato ebraico nella Eretz Israel, era necessario che quella terra diventasse proprietà del popolo ebraico. La convinzione di avere un diritto innato di acquisire terra palestinese permeò qualsiasi azione fin dall’arrivo dei primi coloni israeliani nell’originaria Palestina. Si tradusse poi in politiche sostenute spesso dal lasciapassare dei governi israeliani, ma ancor più frequentemente dalla loro partecipazione attiva. La narrativa dominante intorno al fenomeno del land grabbing è stata sempre la stessa: “a land without people, for a people without a land”, come sostenuto dal sionista Zangwill. Quella terra non era abitata da un popolo, non era sfruttata al massimo delle sue potenzialità. Da qui, deriva il presunto potenziale e fine ultimo dell’insediamento israeliano.

Le politiche di land grabbing attuate da Israele si sono differenziate nel corso del tempo. Gli acquisti sionisti pre-1948, gli sfratti ed espulsioni forzate condotte nel 1948 che diedero luogo alla Nakba (‘Catastrofe’ in Arabo), hanno lasciato posto a metodi considerati oggi “pseudo-legali”: la confisca di terreni e le demolizioni di case, diventati veri e propri flagelli nella vita di ogni palestinese. Soprattutto all’interno dell’area C – controllata da Israele, come stabilito dagli Accordi di Oslo – ogni pretesto è buono per sequestrare un terreno e, conseguentemente, per diminuire la presenza palestinese e per controllare più territori. Inizialmente, si cercò di isolare i proprietari palestinesi dalle proprie terre con una serie di misure formali – come le chiusure di quelle aree per pubblica sicurezza – e informali – costituite principalmente dalla violenza dei coloni israeliani. Successivamente, quando venne attestata l’“inattività” forzata di quei territori, ebbe luogo la delimitazione di nuove zone militari israeliane, naturali o archeologiche, o più frequentemente, la dichiarazione di quei territori come appartenenti allo Stato di Israele e, in tal modo, gestiti dallo stesso e concessi all’espansione degli insediamenti israeliani. Secondo le stime di Peace Now, il 99,76% delle “state lands” allocate dal 1967 sono andate a beneficio dei coloni.

“Questi alberi erano come i miei figli… Quando le forze israeliane arrivarono con i trattori distrussero tutto. Questo ci ha colpito emotivamente e finanziariamente”. Questo viene riportato da un’abitante del villaggio di Al-Rakeez a sud di Hebron. Le conseguenze del land grabbing sulla popolazione palestinese, che spesso vive della sua terra, sono inimmaginabili. Appropriarsi illegalmente di un tale mezzo di sussistenza scardina non solo la loro vita economica, ma anche sociale, economica e culturale.

Non dobbiamo dimenticarci, inoltre, che a differenza di molti altri land grabbing attualmente in corso nel resto del mondo, la realizzazione di questo fenomeno in Palestina presenta fini maggiormente politici che meramente economici. È iniziato, infatti, con l’intento di creare uno Stato ebraico. È continuato, per la brama di maggior potere e controllo.
Le implicazioni politiche scaturite da ciò non sono trascurabili né tantomeno devono essere trascurate. L’accumulo di territori, ritenuti strategicamente e politicamente rilevanti, da parte di Israele ha frammentato la Palestina in zone esclusivamente israeliane e in enclaves palestinesi altamente popolate. In questo contento, lo scenario più plausibile diventa uno stato abitato da un popolo con un forte senso di appartenenza ma che non può contare su una contiguità territoriale. Molto concisamente, Israele sta divorando i territori destinati alla formazione di uno stato palestinese. Un’altra considerazione da tenere in mente: il land grabbing e il suo più importante beneficiario – gli insediamenti – creano fatti concreti, ostacoli fisici difficili da invertire.

La domanda perciò risulta essere: come può esserci una pace effettiva se insediandosi sempre di più e con maggiore incisione, Israele ottiene un margine sempre più ampio di manovra rispetto al suo eventuale ritiro? Maggiore sarà il controllo territoriale israeliano, minore la possibilità di un indipendente stato palestinese, libero dal fardello dell’occupazione. Il land grabbing risulta essere perciò non solo il furto della terra, ma piuttosto il furto di un futuro politico.
Deprivare un gruppo dei loro territori – specialmente considerando l’importanza che la terra occupa nell’economia, cultura e politica palestinese – è uno dei metodi più efficaci per decurtare la loro resilienza. Non per i palestinesi. Loro sono stati in grado di persistere e non piegarsi alla sottrazione di terre che legano generazioni e generazioni. Organizzazioni come PENGON, non demordono e lavorano all’interno delle comunità palestinesi per diffondere una maggiore conoscenza dei loro diritti territoriali. Tantissime persone, ancora scendono in piazza per il Yom-al-Ard (“Land Day”), un simbolo della resistenza attiva palestinese contro l’espropriazione delle terre da parte di Israele. Un simbolo di orgoglio nazionale e di fiducia in se stessi.
È giusto ricordare che esistono ancora palestinesi che non mollano. Sono proprio loro che non stanno lasciando evaporare il loro sogno di autodeterminazione. Sono proprio loro che non stanno permettendo che la Palestina scompaia davanti ai nostri occhi.

Articolo scritto da Laura Caramignoli pubblicato su Fernweh