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“Ogni mattina a Jenin”, un libro che apre alla storia palestinese

Sebbene la questione palestinese si sia presentata molti decenni fa, le opere letterarie che fanno luce su questa tematica in lingua inglese sono ancora poche. La voce letteraria palestinese è stata assente dalla scena e non ha potuto raggiungere il mondo; di conseguenza, la storia della Palestina non è stata ascoltata. Così, “Ogni mattina a Jenin” ha contribuito a colmare questa lacuna.

“In un tempo lontano, prima che la storia marciasse per le colline e annientasse presente e futuro, prima che il vento afferrasse la terra per un angolo e le scrollasse via nome e identità, prima della nascita di Amal, un paesino a est di Haifa viveva tranquillo di fichi e olive, di frontiere aperte e di sole.”

Così inizia “Ogni mattina a Jenin”, la storia di Amal, del villaggio che i suoi genitori hanno perso per sempre a causa dell’occupazione israeliana e del fratello che è stato derubato della sua esistenza. Un racconto che è tutta una vita, dal campo profughi di Jenin dove è cresciuta e dove, all’alba, suo padre le leggeva poesie in cui sembrava disegnarsi un futuro di speranza che non è mai arrivato.


Questa non è solo la storia di Amal e della sua famiglia, ma anche è la storia di un popolo nel corso di sessant’anni frantumato da un conflitto e delle cicatrici del terrore causati dalla guerra, della potente forza della maternità, di fede inesauribile, la grandezza del perdono e la forza feroce che l’amore concede. Un romanzo di assoluta attualità che ci costringe ad affrontare uno dei conflitti armati più complessi dei nostri giorni.

La sensibilità con cui viene narrata la storia di quattro generazioni di palestinesi costretti a lasciare la propria terra dopo la nascita dello stato di Israele e a vivere la triste condizione di “senza patria”, lo ha definito come un romanzo che può fare per la Palestina ciò che il “Cacciatore di aquiloni” ha fatto per l’Afghanistan.

Dopo essere stati portati via con la forza dalle forze militari del neonato Stato di Israele, gli Abulheja vengono sistemati in un campo profughi a Jenin, dove lottano per affrontare la loro vita stravolta da quella che sarebbe stata riconosciuta a livello internazionale come la più lunga occupazione nella storia dell’umanità.

La nipote più giovane del patriarca della famiglia, Amal, emerge come uno dei personaggi principali della storia. Attraverso Amal, il lettore familiarizza con gli elementi di routine della vita in un campo profughi: la povertà, la limitazione degli spostamenti attraverso i posti di blocco, le condizioni di vita anguste e la sensazione prevalente di paranoia e paura dovuta alla presenza dei soldati, che seguono gli abitanti del campo ovunque vadano.

Man mano che Amal cresce, il lettore diventa testimone silenzioso della sua lotta per la salvaguardia della propria identità, mentre cambia scenario, prima da Jenin a un collegio a Gerusalemme, poi all’università in America. Mentre segue un resoconto intricato e onorato della vita di Amal, il lettore apprende anche le implicazioni umanitarie dell’occupazione in Palestina, allora in via di sviluppo, attraverso il prisma delle sue relazioni con la famiglia, gli amici e gli interessi romantici. Gli eventi che si intrecciano sono tali da rendere questo libro tanto storico quanto letterario.

Il romanzo è la successione di 4 visioni, di 4 generazioni diverse che vedono la questione Israelo-Palestinese sotto punti di vista diversi. Seppur scritto nel 2006, fa riflettere come a sedici anni di distanza le tematiche che tratta siano ancora all’ordine del giorno.

Il libro è chiave per capire il concetto di identità di un popolo che si divide in due tipi: quella personale e quella nazionale. La componente principale della definizione dell’identità personale è la memoria, mentre i fattori principali dell’identità nazionale sono i costumi della vita quotidiana di un popolo. L’identità nazionale si basa sulle narrazioni dell’autrice della lotta quotidiana, della vita di tutti i giorni, della miseria e della resistenza del popolo palestinese.

Robin Yassin-Kassab del Sunday Times scrive che, questo libro è importante perché ci ricorda che l’idea della letteratura come forma contemporanea di resistenza è molto viva  così come la memoria collettiva, la cultura, la tradizione, la vittoria, il trauma, tutto è racchiuso nella nostra conoscenza della storia registrata dalla scrittura.

Ma ancora di più, il romanzo di Susan Abulhawa ci spinge a chiederci come si può vivere attraverso una perdita insormontabile della propria terra, della propria famiglia, della propria identità? Forse, solo continuando a vivere e mantenendo viva la memoria in nome della resistenza, si può essere in grado di ritrovare sé stessi.

Maria Rosa Milanese