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La memoria contro la brutalità

“vi mette a disagio, / bevetevi il mare, / tagliatevi le orecchie, / fate un’altra bolla per chiudere in una bolla la vostra bolla e il pretesto. / Fate saltare in aria un’altra città di corpi in nome della paura. / È per questo che balliamo: / Mio padre mi diceva: ‘La rabbia è un lusso che noi non possiamo permetterci’.” Mohammed El-Kurd, Rifqa

“Fare memoria”

Questo è un articolo sulla memoria, non solo del passato, ma anche del presente. Io credo profondamente che la memoria, che si dispiega faticosamente tra continue censure e deformazioni, debba servire per curare, non per ferire. Credo anche che l’Occidente questa lezione non l’abbia ancora imparata. Il 27 gennaio di ogni anno si ricordano le vittime e gli orrori dell’Olocausto nella ricorrenza internazionale conosciuta come Remembrance Day o, per noi, Giornata della Memoria. La memoria. È di questo che si tratta sempre, che sia la costruzione di uno stato, di un’identità o di una relazione. È dal trauma collettivo vissuto dagli ebrei durante la Seconda guerra mondiale che il sionismo, movimento sviluppatosi alla fine dell’800, ha avuto nuova linfa. L’idea, prima marginale e con poco seguito, di realizzare uno “Stato per gli ebrei” ha cominciato a rafforzarsi, realizzandosi nel 1948 con la creazione di Israele in Palestina.

La memoria può diventare un ponte prezioso tra passato e futuro se produce consapevolezza e volontà di non ripetizione, se si traduce nel presente e riesce a “fare memoria”. Oppure può rimanere un banale esercizio retorico, una ripetizione simbolica di informazioni non necessariamente comprese. La Giornata della Memoria dovrebbe farci ricordare la brutale facilità con cui si può giungere a discriminare e disumanizzare un’intera comunità. Oggi, in questa giornata, dovremmo profondamente ricordare, profondamente interrogarci e profondamente chiederci come gli israeliani sionisti da memori vittime si siano trasformati in oppressori in Israele.

Antisionismo non è antisemitismo

Se, da una parte, il sionismo sorse in uno dei periodi di più inumano antisemitismo in Occidente, dall’altra coincise anche con il momento di massima espansione territoriale del colonialismo europeo in Africa ed in Asia. È infatti di colonizzazione che si tratta quando si parla di sionismo e le colonie – ricordo – sono un crimine di guerra. Eppure oggi, riflettere sulla soppressione della realtà palestinese operata dal progetto sionista e criticare Israele perché tiene in ostaggio una popolazione intera attraverso l’occupazione militare più lunga che la storia contemporanea ricordi porta, spesso, ad essere accusati di antisemitismo. È quello che sta accadendo alla giurista Francesca Albanese, Relatrice alle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori palestinesi occupati. Così come alle principali organizzazioni internazionali che si occupano di diritti umani, incluse Amnesty International e Human Rights Watch, proprio dopo che hanno esposto l’apartheid delle politiche israeliane.

Tacciando di antisemitismo e assimilando e piegando l’ebraismo alla propria agenda politica, Israele mette facilmente a tacere ogni legittima accusa da parte dei difensori dei diritti umani. Ma l’Ebraismo è religione, il sionismo è politica. Se l’Ebraismo è degli ebrei tutti, il sionismo è degli israeliani, o filo-israeliani soltanto. Il sionismo non ha gli stessi margini di pluralismo, di rispetto per la vita e di amore per il prossimo che offre l’Ebraismo, meno che mai per i palestinesi. Tanti fattori nei decenni hanno contribuito all’ottusa, dannosa e usurata abitudine di mettere sullo stesso piano antisionismo e antisemitismo. Tra questi la difficoltà di reperire informazioni storiche non solo di parte sionista. La diffusione ad opera dei media occidentali di tendenziose semplificazioni, per esempio che si tratti di “un conflitto”, e la tendenza tra gli intellettuali a considerare la situazione delicata e spinosa, proprio a causa del ricordo della Shoah.

Cancellare l’identità

La ricetta del sionismo è invece semplice: sempre più territorio e sempre meno nativi. Attraverso lo sfollamento forzato, la ghettizzazione, la sottomissione della popolazione palestinese attraverso un sistema discriminatorio istituzionalizzato, e l’acquisizione ed il controllo delle sue risorse, Israele cerca di privare i territori della loro identità politico-culturale palestinese, della loro memoria storica. L’ultimo rapporto della Relatrice ONU conferma che l’occupazione non è meramente belligerante, ma di natura coloniale. Israele ha impedito la realizzazione del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese  perseguendo volontariamente la “de-palestinizzazione” dei territori occupati.

Nel 2022, più di 200 palestinesi, tra cui più di 50 bambini, sono stati uccisi da Israele nei territori occupati. Nell’anno più mortale per i palestinesi dal 2005, da quando l’ONU ha iniziato a documentare sistematicamente le uccisioni. De-palestinizzare il territorio, però, non significa solo eliminare fisicamente, ma anche spingere via, demonizzare, disumanizzare, fino a negarne l’esistenza stessa. Eliminare un intero popolo cancellando la sua memoria e la sua identità, è di questo che si parla nella Giornata della Memoria ed è contro questo che dovremmo lottare ancora.

De-palestinizzare la Palestina

È in atto un processo di distruzione del popolo palestinese e di appropriazione dei suoi simboli da parte di Israele che altro non è che l’ennesimo capitolo del progetto sionista. Sono esempi di questo processo l’uccisione della giornalista Shireen Abu Akleh, volto famoso e familiare della TV palestinese da 25 anni. Il trasferimento punitivo in isolamento in un altro penitenziario di Marwan Barghuti, considerato “il Mandela palestinese”, in seguito alla pubblicazione di un suo articolo sul New York Times, ed il cancellamento della storia palestinese nei testi scolastici israeliani. Ma anche la rimozione dell’arabo dalle lingue ufficiali di Israele, la sostituzione dei nomi dei luoghi arabi, il continuo furto o la demolizione di proprietà palestinesi, come a Gerusalemme Est. Ed il divieto di esporre in pubblico la bandiera palestinese ribadito recentemente dal ministro della sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben Gvir. Lo stesso che ha chiesto di deportare in Siria gli ebrei ultraortodossi di Naturei Karta, un gruppo religioso che rifiuta di riconoscere l’autorità e la stessa esistenza di Israele.

Uccidere, zittire, nascondere, rimuovere: sfaldare la memoria. È questo il nocciolo. La missione del sionismo, che narrava della Palestina come di una terra vuota e arida, è stata ed è tutt’oggi quella di nascondere i resti visibili della Palestina. Distruggere la memoria di un popolo, alterando la narrazione e strumentalizzando la Shoah, il cui ricordo mette l’occidente a disagio, a occhi bassi e mai puntati sulla Palestina da oltre 55 anni, non può più essere accettabile. Io profondamente credo che la memoria possa essere una cura, perché è il contrario dell’indifferenza, perché invita a guardare indietro e guardarci dentro, ad amministrare la verità sostanziale dei fatti e dire “mai più”.

Michela Pugliese