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WISE VOICES STORIES

Intervista alle volontarie del Servizio Civile Nazionale

Wise voices stories è una rubrica che ha come obiettivo quello di raccontare la Palestina attraverso le storie di esperti, organizzazioni e attivisti che vivono in loco. Diamo voce a chi la Palestina la vive e la affronta quotidianamente.

In Palestina ci sono tante organizzazioni che offrono la possibilità, a chi interessato, di passare un periodo a stretto contatto con il conflitto, la popolazione palestinese e la vita sospesa a metà tra Israele e Palestina. Molte sono le persone che scelgono di toccare con mano, per un periodo più o meno breve, questa realtà. Capire il loro punto di vista e come questo cambia è estremamente interessante per Labiba.
La Wise Voice Story di oggi ci porta a conoscere proprio due di queste voci giovani e curiose che hanno deciso di passare del tempo in quei luoghi sognanti e difficili.

Cosa ti ha spinto a candidarti al Servizio Civile Nazionale? Ed in particolare a scegliere un progetto in Palestina?

M: “Il percorso che mi ha portato a candidarmi per questo progetto in Palestina è iniziato nel 2019, quando ho partecipato ad un viaggio studio in Palestina, organizzato dall’Università degli Studi di Padova con il Centro Diritti Umani Antonio Papisca. Durante questa occasione abbiamo avuto l’opportunità di approfondire la tematica del conflitto e dello stato dei diritti umani in Palestina, incontrando associazioni, ngo, ed istituzioni – sia locali che internazionali – impegnate sul campo. Uno di questi incontri ci ha portato a conoscere l’Associazione Pro Terra Sancta e scoprire un po’ i loro progetti nei territori. Da quel viaggio, il mio interesse per questo posto è stato costante e la mia voglia di ritornarci per conoscere più a fondo la quotidianità palestinese è andata aumentando, così, quando ho visto il bando del servizio civile ho pensato di inviare la mia candidatura.” 

R: “Due anni fa sono venuta per la prima volta in Palestina con lo scopo di praticare l’arabo, che avevo studiato all’università ma che non ero capace di parlare. Sono rimasta per 5 mesi, girando grazie a workaway. Per caso sono finita a collaborare con l’Associazione Pro Terra Sancta e ho conosciuto de* ragazz* che facevano il servizio civile. Sono rientrata in Italia con un’enorme voglia di tornare in Palestina, perciò ho aspettato che PTS aprisse il bando del servizio civile e ho colto l’occasione al volo!”

Quali erano, e quali sono tutt’ora, le tue paure e aspettative?

M: “Le mie aspettative erano altissime. Sono partita con una grande voglia di conoscere le persone, scoprire i luoghi e la storia e mettermi in gioco a livello professionale. Per ora, a poco più di tre mesi dalla partenza, la realtà è stata all’altezza delle mie aspettative, e so che i prossimi mesi saranno altrettanto ricchi di stimoli, scoperte ed incontri. 
Riguardo alle mie paure, non saprei, non avevo paure specifiche prima di partire. Forse, l’unica paura che tutt’ora sento è di non riuscire ad elaborare e razionalizzare i sentimenti di frustrazione, e talvolta rabbia, che in questo contesto è facile provare e potrebbero comunque limitare l’esperienza sul campo.” 

R: “Dopo un anno e mezzo di COVID avevo un po’ paura di lanciarmi in una vita movimentata e piena di incontri, e di dover mettermi in gioco ancora una volta in un contesto nuovo, con persone nuove. In effetti all’inizio prendere il ritmo del servizio civile è stato stancante, ma per fortuna le mie compagne sono le compagne perfette, e ci sosteniamo molto a vicenda, oltre ad approfittare del tempo libero per girare insieme e conoscere posti e persone nuove. Le mie aspettative principali sono di tornare a casa con una buona padronanza dell’arabo palestinese, una comprensione maggiore di questa realtà, e aver visto tutti i posti e le città che vale la pena visitare.”

Quali sono state le tue prime impressioni, come sei stata accolta? 

M: “A distanza di tre mesi posso dire di sentirmi di aver trovato una seconda casa. Dal giorno in cui siamo arrivate fino ad oggi, ho (ed abbiamo) incontrato persone che ci hanno fatto sentire a casa fin da subito. La disponibilità, generosità ed accoglienza delle persone sono parte della cultura palestinese e chiunque abbia voglia di conoscere e scoprire questa terra sarà sempre accolto e trattato come un fratello o una sorella.”

R: “Avendo già vissuto a Betlemme per qualche mese, è stato bello ritrovare dei luoghi in cui ero stata bene. Sono/siamo stata/e accolta/e con immenso calore da* beneficiar* dei progetti in cui siamo volontarie, che erano abituat* a vivere con un continuo viavai di volontar* internazional*.” 

Raccontaci un po’ della tua quotidianità, delle cose che ti stanno affascinado circa il popolo e la cultura palestinese, i lughi che ti sono al momento rimasti piu impressi? 

M: “I luoghi che sto vivendo nel quotidiano sono Gerusalemme e Betlemme, tuttavia, quasi sempre, il weekend, cerchiamo di viaggiare e spostarci in altri posti.
Vivo a Betlemme ma tutti i giorni mi sposto a Gerusalemme per lavorare. 
A Gerusalemme seguo i progetti e le attività dell’ufficio di Pro Terra Sancta. A Betlemme, quando rientro la sera, faccio lezione di arabo una volta a settimana e quando riesco prendo parte alle attività di Right to Movement (yoga, corsa, classi di fitness).Vivere queste due città, che rappresentano mondi così diversi, pur essendo così vicine (9 km) mi pone sempre davanti a nuove riflessioni e stimoli. 
Gerusalemme è un mondo di mondi: crocevia di culture, popoli, storie, lingue. È anche contraddizione e rabbia. Sacra e profana. Gerusalemme ti fa sentire come se fossi solo uno dei tanti di passaggio in questo luogo eterno. Ti fa sentire privilegiata nel prendere parte al suo tracciare la storia, ma anche appesantita da tale privilegio. 
Betlemme è casa. Rientrare a Betlemme ogni sera significa per me ritornare in un posto accogliente e sicuro, che conosco e mi conosce. 
Molto spesso i weekend ci spostiamo a Ramallah, dove passiamo il venerdì e sabato con dei nostri amici. A Ramallah c’è sempre qualche evento interessante ed è pieno di cafè dove mangiare, lavorare, stare in compagnia e godersi qualche tramonto suggestivo.
Altri posti affascinanti e da scoprire, in particolare per la ricchezza del loro patrimonio culturale, sono Nablus, Sebastya, Hebron e Gerico. Il Monastero di Mar Saba, nel deserto poco distante da Betlemme, lascia senza parole.” 

R: “La mattina vado in ufficio, dove sto seguendo un progetto di empowerment e training per 4 donne che –inchallah!!- diventeranno presto una cooperativa di sarte. Due mattine a settimana vado al seminario di Bet Jala a insegnare l’italiano a 5 seminaristi. Il pomeriggio faccio qualche ora di volontariato in una casa di riposo per donne, al primo piano dell’edificio in cui abitiamo noi civiliste. Mi sento fortunata perché passo le mie giornate a contatto con i/le palestinesi, che mi affascinano per la loro capacità di sorridere ed accogliere spontaneamente, a prescindere dalle restrizioni e le difficoltà a cui sono sottopost* costantemente, in ogni ambito della loro vita. Mi affascina la loro forza di volontà e resilienza, che si nota anche nelle cose più piccole e quotidiane. 
La spiaggia di Acca e il monastero di Mar Saba sono i due posti che per adesso mi hanno affascinata di più.”

C’è qualcosa che ti fa paura? Che non ti fa sentire tranquilla nei territori?

M: “No, nei territori non c’è niente che non mi faccia sentire tranquilla, né ho mai avuto paura. Tuttavia, il dover passare i checkpoint militari tutti i giorni per raggiungere Gerusalemme è un’esperienza pesante ed opprimente. In particolare, è pesante rendersi conto che per alcuni palestinesi questa vita, queste procedure e questa incertezza è la quotidianità. 
Talvolta, nei territori è difficile non sentirsi sopraffatt* dai sentimenti, è frustrante non avere potere contro le ingiustizie di cui siamo testimoni tutti i giorni ed io talvolta non mi sento tranquilla nel gestire la consapevolezza di essere – in quanto internazional* – privilegiat* rispetto ai palestinesi.” 

R: “Finché sono dentro i territori non ho paura. Mi stressa passare i check point per andare dall’altro lato. Nella Palestina ‘48 mi disturba vedere tant* ragazz* israelian* in divisa che prendono i mezzi di trasporto pubblici, armat* di tutto punto. Nei territori, o almeno dove sono andata e vado di solito, non si vedono armi (tranne per le forze dell’ordine palestinesi, come in tutti gli altri paesi) e la gente è tendenzialmente molto gentile. A volte un po’ invadente, ma questo non mi fa paura.” 

Come hai percepito tu da esterna, internazionale, i palestinesi che vivono la loro quotidianità sotto occupazione? Qual è il loro atteggiamento verso il loro vivere quotidiano?

M: “L’occupazione è parte della quotidianità di ogni palestinese. Non c’è un atteggiamento univoco, uguale per tutti. C’è chi trasforma l’attivismo politico nel proprio lavoro e chi ne parla meno al fine di vivere una quotidianità più leggera. La costante è che, in un modo o nell’altro, l’occupazione incide ed opprime la vita di ogni palestinese, che si trovi a Gaza, in West Bank, o in Israele. Che ne parli di più o di meno. La cosa sorprendente è la forza, l’energia, la vitalità di questo popolo che nonostante tutto è capace di vivere ogni giornata con gioia e determinazione.”

R: “C’è un’enorme varietà di atteggiamenti. Fra i miei amici c’è chi costruisce il proprio futuro con la voglia di investire le proprie capacità in questa terra, ma che combatte contro l’amara consapevolezza che probabilmente tutti gli sforzi fatti saranno inutili, finché c’è l’occupazione. C’è chi ha più mezzi e privilegi di altri e cerca dei modi per sviare l’occupazione, andando anche dall’altro lato ogni volta che può, ma anche in questo caso la lotta interiore sembra non essere indifferente. C’è chi dedica la propria vita allo studio e alla divulgazione dell’occupazione, con grande impegno ed energia – con questi amici si parla sempre di politica e storia- e ho l’impressione che se smettessero di farlo il mondo gli crollerebbe addosso e si sentirebbero inutili e inermi. C’è chi non ne parla, troppo presa dalla famiglia, i figli, il lavoro, come negli altri luoghi del mondo, in cui c’è gente che non ha tempo di pensare alla politica e ai viaggi. Di questi che non ne parlano, alcuni mi sembra che lo facciano intenzionalmente, perché è l’unico modo per concentrarsi sui propri obiettivi e vivere la propria quotidianità in maniera normale. Se dovessi dare una risposta generica, direi che un atteggiamento comune è quello dell’autoironia. Sorrisi amari o grasse risate che siano, il popolo palestinese è inspiegabilmente sorridente.”